BRUNO CARDINI

Libera_mente

Nicolajewka

L’ARMIR (8^ armata) era strutturata su un nucleo di unità direttamente dipendenti dal comando di Armata, sul II Corpo d'Armata, il XXXV Corpo d'Armata (ex CSIR) ed il Corpo d'Armata Alpino, come segue:

In tutto l’ARMIR aveva una forza di 230.000 uomini di cui 150.000 schierati in prima linea lungo il fronte del Don. Le dotazioni non erano poche:

  • 16 700 automezzi
  • 1 150 trattori d'artiglieria
  • 4 500 motomezzi
  • 25 000 quadrupedi
  • 940 cannoni di cui:

Si segnala l'eterogeneità dei calibri che rendeva difficile la logistica delle munizioni, talchè poche ore di fuoco esaurivano le munizioni di uno specifico calibro; cosa che avvenne a Warwarowka, per fortuna i pochi colpi disponibili furono sufficienti a colpire i corazzati russi o ad allontanarli.

I 75/13 sopra segnati erano quelli dei reggimenti di artiglieria da montagna. Si evidenzia la dotazione non scarsa di automezzi (uno circa ogni 10 soldati schierati ) che avrebbero potuto permettere una diversa ritirata. L’armata tuttavia dipendeva per la benzina dai tedeschi. Un particolare non secondario era che i motori dei nostri automezzi erano a gasolio mentre quelli dei tedeschi erano prevalentemente a benzina. A seguito lo schieramento sul Don. Come si vede il corpo d’armata alpino era nel settore nord.

Il 19 Novembre 1942 l’Armata Rossa dava avvio all’operazione Urano che in due giorni portò all’accerchiamento della 6^ armata tedesca a Stalingrado. A seguito la mappa dell’operazione militare.

 

I tedeschi risposero con un tentativo di rompere l’accerchiamento mediante un attacco da sud, sotto il comando operativo di Hot e strategico di Manstein. Per raggruppare le forze necessarie all’operazione di salvataggio della 6^ armata e dei 250.000 uomini accerchiati ci volle quasi un mese. Il 21 dicembre 1942 Manstein diede il via all’operazione “Tempesta d’inverno” (vedi carta seguente)

 

 

Stalin e lo STAVKA (Stato maggiore sovietico) valutarono che la migliore risposta all’attacco di Hot fosse un attacco strategico su un’altra perte del fronte che avrebbe minacciato di accerchiamento tutte le armate che stavano ritirandosi dal Caucaso e che dovevano passare attraverso i ponti della città di Rostov, gli unici tenuti ancora aperti.  Il progetto di questo attacco che aveva il nome di “operazione Saturno” era pronto fin dal tempo dell’accerchiamento di Stalingrado, ma allora non vi erano truppe sufficienti.

Lo STAVKA stimava che a Stalingrado sarebbero state accerchiati 80.000 soldati e che la sacca sarebbe stata liquidata in 30-45 giorni, alla caduta della sacca le truppe potevano essere girate a bloccare la ritirata dei tedeschi dal Caucaso.. In realtà accerchiarono 250.000 soldati e la resistenza della sacca si protrasse per quasi tre mesi.

La minaccia di Hot comunque convinse Stalin e lo STAVKA a mettere in opera l’operazione Saturno, seppure in forma ridotta e per tale motivo venne chiamata “piccolo saturno”.

Dal novembre l’ARMIR era un fronte con il sud aperto perché l’armata rumena sul suo fianco destro era stata annientata. Nel mese e mezzo di attesa il comando italiano aveva ulteriormente diluito le truppe per creare un “fronte sud” capace di resistere ad un aggiramento da sud est.

Le forze che i russi erano stati capaci di mettere insieme per l’attacco agli italiani si slanciarono all’assalto il 14 dicembre 1942 secondo le direttrici di massima sotto riportate. Il Don si era ghiacciato e non era più una linea di difesa.

L’immagine con i nomi in russo è quella più precisa trovata in rete.

 

 

Si nota che, sul fronte italiano, l’attacco principale avvenne sul lato destro (sud) del fronte. Investì le divisioni Cosseria, Ravenna,  Celere, Pasubio, Torino e sforzesca. Con la ritirata non concordata con il comando italiano della 298^ divisione tedesca il fronte tra la  La Cosseria e la Ravenna crollò; queste divisioni direttamente investite scomparvero. La Pasubio e la Torino furono accerchiate e per i loro soldati non vi fu più speranza.

Il Corpo d’armata alpino che teneva il fianco sinistro (Nord) del fronte non fu investito. La Julia era stata sostituita al centro dello schieramento dalla Vicenza e le  venne ordinato di spostarsi a sud. Fin dal 20 dicembre i soldati di questa divisione vennero spostati fuori dai ricoveri, nella steppa aperta con 30-40 gradi sotto zero, per formare un fronte sud nel caso che i russi girassero verso nord-est.

IL 12 gennaio del 43 i Russi avviarono un’altra offensiva a Nord dell’8^ Armata italiana investendo la 2^ Armata ungherese e provocando un’ulteriore falla nel sistema difensivo tedesco. Ora gli italiani erano strategicamente circondati (tatticamente vi erano ancora dei passaggi non coperti dai sovietici).

Il 17 gennaio, quindi dopo 5 giorni dallo sfondamento a Nord venne dato l’ordine di ripiegare. Il corpo d’armata alpino si mise in marcia. La Tridentina era l’unica divisione che non era stata mai investita dall’offensiva ed aveva ancora una residua capacità militare, ma la mancanza di mezzi di trasporto costrinse ad abbandonare quasi tutta l’artiglieria e gran parte delle armi pesanti (mitragliatrici e mortai).

La ritirata assunse da subito aspetti drammatici perché la possibilità di marcia era limitata a poche ore del giorno e durante la notte era necessario trovare un riparo o si sarebbe morti congelati.

Verso il corpo d’armata alpino raccolse accorsero rapidamente tutte le formazioni o i gruppi in grado di muoversi, in breve la ritirata divenne una enorme colonna lunga 40 chilometri (come da Verona a Vicenza) dove i vivi marciavano sui cadaveri dei morti e chi cadeva sfinito moriva e non si rialzava.

Il Corpo d’armata alpino dovette sfondare un primo sbarramento sovietico lungo la linea Postjalvi – Rossos il 20 gennaio; la Julia, più a sud, seguiva un itinerario diverso ed era già passata oltre tale sbarramento prima che si rafforzasse.

Un secondo sbarramento fu trovato lungo il fiume Kalitva tra Varvarouk e Ochowatka e venne passato combattendo tra il 21 e il 22 gennaio. Il 23 si giunse a Nikolajewka (non quella famosa), un nuovo sbarramento era stato formato a Nikitowka e venne sfondato il 25, ma le forze che i sovietici mettevano in campo sembravano inesauribili e,  passato lo sbarramento di Nikitowka la colonna si trovò di fronte una nuova barriera lungo la ferrovia che correva da Nord a Sud a Est di Nikolajewka.

 

La situazione era veramente dispertata: gran parte dei soldati della colonna avevano già abbandonato le armi ed erano sfiniti, le munizioni praticamente esaurite con la notte che si avvicinava. Vennero mandati all’assalto i battaglioni Edolo, Tirano e Vestone della Tridentina, gli unici che ancora avevano armi e munizioni, ma non riuscirono a passare. Segnalo “non riuscirono a passare” non “vennero respinti” perché pochi di quelli andati all’assalto sopravvissero.

Mentre il sole stava calando e la notte con la morte per gelo si avvicinava il generale Reverberi salì su un corazzato tedesco che aveva ancora qualche litro di benzina e ordinò al conducente di avanzare e alla sfinita colonna lanciò un grido che fu udito da pochi, ma che si trasmise come fuoco nella paglia “avanti alpini, di là c’è l’italia”.

La massa sterminata e sfinita si precipitò giù dalla collina da cui si vedeva Nikolajewka verso lo sbarramento e le mitragliatrici russe, morirono a migliaia (3000), ma riuscirono a passare.

La notte si accalcarono ancora una volta nelle isbe russe sopravvivendo ad un altro giorno di dolore.

Dopo dieci ore di combattimento, attraverso il varco aperto uscirono i 13.420 uomini del Corpo d’Arma Alpino: erano 61.155 quando avevano lasciato le rive del Don, dieci giorni prima. Altri 4000 riuscirono ad esfiltrare in altro modo.

Nikolajewka fu l’ultimo sbarramento, ma la ritirata non era finita: per altri 4 giorni marciarono nel gelo della steppa finchè raggiunsero Sebekno dove trovarono i primi soccorsi. Tra il 19 e il 26 gennaio si erano percorsi a piedi nella steppa gelata 600 chilometri (90 km al giorno contro una media di marcia di trenta in periodo estivo), ma la marcia del dolore non era ancora finita perché, tranne i feriti, i sopravvissuti dovettero camminare ancora per centinaia di chilometri anche dopo aver raggiunto i soccorsi.

La Julia, la Cuneense e la Vicenza andarono invece incontro ad un tragico destino perché non si erano unite alla tridentina ed erano state indirizzate su un percorso più a sud che si riteneva libero. Dovettero invece combattere a Varvarowka e a Valuiki dove vennero bloccate e non riuscirono a passare. Ricordo che la Julia, spostata a Sud, aveva abbandonato le trincee coperte e riscaldate sul Don fin dal 20 dicembre 42, era perciò un mese che i soldati della Julia combattevano all’aperto nella steppa.

Gruppi disorganizzati di soldati riuscirono a esfiltrare dalle varie sacche con perdire immense.

Nel marzo del 1943 i resti di quello che era l’ARMIR vengono rimpatriati e si fanno i primi conti delle perdite. La forza complessiva presente all’inizio dell’offensiva russa era di 220.000 uomini e, secondo i dati pubblicati dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore, mancavano all’appello 84.830 uomini.

Oggi, dopo approfondite indagini presso ciascun Comune e ciascun Distretto Militare, da parte dell’Ufficio dell’Albo d’Oro — Sezione del Ministero della Difesa che funziona da anagrafe di tutti i militari — il numero degli italiani che non hanno fatto ritorno dal fronte russo è di circa 100.000.

Tenuto conto che circa 5.000 erano caduti per i fatti d’arme antecedenti al 15 dicembre, le perdite dello sfondamento e della ritirata sono di 95.000 uomini. Secondo i dati  desunti anche dalla documentazione esistente negli archivi russi, finalmente aperti ai ricercatori italiani, 25.000 sono morti combattendo o di stenti durante la ritirata e l'esfiltrazione e 70.000 sono stati fatti prigionieri.

Questi prigionieri furono fatti marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, in condizioni allucinanti, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento — improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali — erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte.

Gli italiani morti nei campi di concentramento sono quasi tutti nei primi sei mesi del 1943. Solo nel 1945 ed in parte nel 1946. 10.000 sopravvissuti (su 70.000 prigionieri) furono restituiti dall’Unione Sovietica.

Dalla documentazione russa risulta la presenza di italiani in circa 400 diversi lager, quelli più tristemente famosi sono quelli di Tambov  - dove morirono circa 10.000 italiani -quelli di Miciurinsk, di Khrinovoje, di Tioìnnikov.  Non a giustificazione, ma a spiegazione delle alte perdite in prigionia, occorre dire che l’URSS aveva avuto, nel primo anno di guerra, milioni di morti per fame (600.000 solo a Leningrado); in altre parole i russi non avevano da mangiare nemmeno per loro stessi ed era conseguente che non si preoccupassero troppo dei prigionieri.

 

I superstiti del Corpo d'Armata Alpino, tornati in Italia, raccontarono la loro esperienza. Parlavano con entusiasmo della popolazione ucraina e con odio degli "alleati" tedeschi. Citiamo da una relazione dell'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito Italiano:
"La popolazione ucraina - per pietà, simpatia o per ordine ricevuto dalle autorità russe - fu sollecita nell'alleviare sofferenze, offrì da mangiare, vestire e possibilità di riposo ai soldati dell'Armir".

Come si comportarono i tedeschi? Dice la stessa relazione: "Dalle isbe, a mano armata, venivano cacciati i nostri soldati per far posto a quelli tedeschi; nostri autieri, a mano armata, venivano obbligati a cedere l'automezzo; dai nostri autocarri venivano fatti discendere nostri soldati, anche feriti, per far posto a soldati tedeschi; dai tren carichi di nostri feriti venivano sganciate le locomotive per essere agganciate a convogli tedeschi; feriti e congelati italiani venivano caricati sui pianali dove alcuni per il freddo morivano durante il tragitto, mentre nelle vetture coperte prendevano posto militari tedeschi, non feriti, che, avioriforniti, mangiavano e fumavano allegramente quando i nostri soldati erano digiuni da parecchi giorni. Durante il ripiegamento, i tedeschi, su autocarri o su treni, schernivano, deridevano e dispregiavano i nostri soldati che si trascinavano a piedi nelle misere condizioni che abbiamo descritte; e quando qualcuno tentava di salire sugli autocarri o sui treni, spesso semivuoti, veniva inesorabilmente colpito col calcio del fucile e costretto a rimanere a terra".

Citiamo Nuto Revelli, ufficiale uscito dalla sacca: "Ricordo che il 30 gennaio, appena fuori dalla sacca, i tedeschi delle retrovie si divertivano a fotografarci. Era quasi come se il nostro disastro fosse una loro vittoria e ci segnavano a dito con disprezzo. Il 9 marzo, a Slobin, il maggiore Gerardo Zaccardo adunò il Battaglione "Tirano" e parlò della tragedia e della ritirata:

"È un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata, i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del 1915".

Il messaggio dei superstiti fu la condanna dell'assurda politica di guerra del fascismo. Questo spiega perché le popolazioni delle valli che avevano visto morire i loro figli in Russia si schierarono subito, d'istinto, con la Resistenza. Così avvenne, ad esempio, nelle vallate di Como, dove bruciante era il ricordo dei quattordicimila caduti e dispersi della "Cuneense". I partigiani lottarono contro i nazi-fascisti anche per conto dei fratelli, dei figli, degli amici che erano morti in Russia.

In una dolorosa canzone della resistenza (Pietà l'è morta!) che riprendeva la vecchia canzone "Sul ponte di Perati", composta da un reduce della ritirata di Russia questo sentimento è urlato

"Lassù sulle montagne bandiera nera:
è morto un partigiano nel far la guerra.
È morto un partigiano nel far la guerra,
un altro italiano va sotto terra.
Laggiù sotto terra trova un alpino,
caduto nella Russia con il Cervino.
Ma prima di morire ha ancor pregato:
che Dio maledica quell'alleato!
Che Dio maledica chi ci ha tradito
lasciandoci sul Don e poi è fuggito.
Tedeschi traditori, l'alpino è morto
ma un altro combattente oggi è risorto.
Combatte il partigiano la sua battaglia:
Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia!
Tedeschi e fascisti, fuori d'Italia!
Gridiamo a tutta forza: Pietà l'è morta!"